Pet Architecture, le piccole contraddizioni di Tokyo
Archiobjects • Public Spaces & Landscape
Tokyo è una città complicata. Non servono grandi analisi per comprenderlo. Basta osservarla di sfuggita, da uno o più punti di vista, e sarà facile capire che nel corso della sua storia non c’è mai stata una pianificazione urbana programmata o integrata. Questa grandiosa nasce dal risultato di una serie di interventi e architetture spontanee che via via nel corso dei secoli sono andate stratificandosi.
Troppe volte nel corso della storia i cittadini giapponesi dovettero adattarsi ai nuovi eventi, pur facendolo in modo sempre magistrale e reattivo. Ciononostante, questa capacità di continuo aggiornamento non è riuscita ad assolvere del tutto ai problemi che emergono all’attenzione.
La quasi assente strategia territoriale ha portato ad un consumo del suolo molto elevato, questo ha portato ad una nuova tipologia architettonica dettata dalle esigenze spaziali. Nello specifico, stiamo parlando di edifici costruiti in spazi minimi e interstiziali, capaci di creare casi tanto singolari quanto unici. Capaci di offrirsi persino come oggetto di studio.
Studiarli è proprio quello che ha fatto l’atelier Bow Wow nella sua pubblicazione “Pet Architecture”. Gli architetti-ricercatori Tsukamoto e Kajima hanno infatti analizzato e raccolto in un libro i piccoli edifici di cui Tokyo è costellata, sponsorizzando così l’utilizzo talvolta estremo degli spazi urbani di risulta. Il libro oggi è quasi introvabile, quasi un oggetto da collezione per appassionati .
Accanto a questo lavoro di ricerca hanno inoltre affiancato la loro personale produzione di questi small spaces. Numerose sono infatti le loro opere in cui ricavano spazi abitabili laddove pochi altri progettisti riuscirebbero.
Ma a questo punto sorge forse una contraddizione: perché l’architettura non cerca di risolvere il problema del consumo del suolo, ma al contrario lo satura ulteriormente?
Uno dei compiti di un architetto è certamente quello di gestire gli spazi al meglio, e in questo i due architetti giapponesi possono ritenersi maestri, ma se osserviamo la vicenda da un altro punto di vista, potremmo considerare che un buon educatore (e in questo caso intendiamo l’architetto come colui che dovrebbe educare e guidare verso un buon vivere urbano) avrebbe forse evitato di andare a riempire i pochi vuoti urbani presenti nella città.
Su questo tema è esemplificativo il tentativo in questa direzione dei progetti del gruppo “Metabolist” degli anni cinquanta, in cui s’immaginavano soluzioni volte a lasciare libero il suolo della capitale giapponese. Come? Popolando la baia di Tokyo per esempio.
Tokyo però è una città unica e magnifica anche per questo. Nonostante l’alto consumo di suolo, nonostante le pet architectures, è una città che funziona, che vive, che prospera. Sicuramente avrà i suoi problemi, ma tutte le città hanno i loro problemi. Si può concedere quindi a questa poetica delle piccole architetture il beneficio dell’unicità. Della caratterizzazione. E soprattutto della capacità tecnica e sociale di creare nuovi spazi in posti inimmaginabili.