Mondiali 2006 e io che avevo sedici anni
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Da qualche tempo (…) avevo cominciato a interrogarmi sulla forza degli individui. Sul fatto che alcune volte le sostituzioni sono impossibili, e si deve rinunciare. Su tutte le cose che un giorno finiranno, inevitabilmente, anche se dovrà passare molto tempo prima di allora. E, dunque, sulla voglia di assaporare il presente. La ragione non aiuta assolutamente a comprendere il significato dell’espressione “niente si ripete”, eppure, quando qualcuno va via dal quartiere, si ripercorrono con affetto le giornate insostituibili trascorse insieme.” – (Moshi Moshi, Banana Yoshimoto)
Abbiamo aperto il mobiletto sotto la TV, quello dove papà tiene i liquori, abbiamo estratto la scatola delle foto e ci siamo seduti sul divano. Abbiamo visto insieme molti Paesi e là dentro ci sono talmente tanti album che il coperchio ormai lo si può solo appoggiare. La scatola non si chiude, i ricordi strabordano. Dieci anni fa avevo sedici anni. Non che non lo sapessi prima di trovarmi tra le mani una fotografia con scritto in penna sul retro “estate 2006” ma guardarmi sul lungomare di Monterosso in un’immagine che credevo scattata ieri mi ha teoricamente praticamente e operativamente sconvolto.
Dieci anni fa avevo sedici. Era un’estate bella e calda come quella di adesso ed era l’estate dei mondiali 2006. Chiunque tu sia stato in quel momento, non puoi dimenticarlo. Io ho ricordi molto nitidi di quella sera di luglio. Stavamo tutti ammassati in un bar del centro, nella zona pedonale del paese. Il classico locale con tavolini e sedie di metallo, macchinette, un biliardo, il bancone anni ’70 con gli alcolici esposti in alto, espositore delle goleador vicino alla casa, divanetti panna sui lati, palla girevole dei chupa-chups a 50 cent. l’uno. Il posto ideale per una finale che ci vedeva tutti presenti: noi e “la nostra compagnia”, i vecchietti in canotta bianca, le mamme coi passeggini, i bulli del quartiere, i “grandi”, “gli altri” e “le fighe”. Stavamo tutti ammassati vicino alle finestre che davano sulla piazza e stavamo ammassati nonostante il caldo e i ventilatori a manetta tanto non sentivamo nulla se non quello che si sente a sedici anni, in un bar del centro che è il centro del mondo, durante la finale dei mondiali Italia-Francia 2006.
Dieci anni fa avevo sedici anni. E quando Grosso segnò l’ultimo rigore spiazzando Barthez, nonostante io non fossi una tifosa e il calcio mi sembrasse solo uno sport banale e una bella e buona fissa maschile, sentii un’esplosione di gioia scoppiarmi nello stomaco e cominciai a urlare, a gridare, a correre e forse persino a piangere e ci stringemmo tutti, ci abbracciammo, cantammo il “pop o po popo po” dei The White Stripes a squarciagola e vidi che intorno a me era felicità vera, salti di gioia, bagni nella fontana, lacrime e baci, unione. Chi erano i “bulli”, “i grandi”, gli “altri”, chi erano i “nuovi”, gli “sfigati”, “i nobili” e “i plebei”? La vittoria aveva sciolto i dispiaceri, accorciato le distanze, aveva fatto fare passi da gigante a coppie impacciate, aveva dato il via a un secondo carnevale. Poi salimmo sull’ape car del papà di un amico e girammo le strade con le bandiere tricolore, le magliette svolazzati, le gocce sulla fronte e sembrava un grande compleanno, era festa nazionale.
Dieci anni fa avevo sedici anni e cominciai ad amare il calcio e ad amare sempre più il mio Paese. Oggi, che di anni ne ho 26, ho seguito gli europei con lo stesso entusiasmo di allora, esultando sul balcone per i gol di Pellé e le parate di Buffon, cantando l’inno con gli amici, saltando sul divano. Ma avrei voluto vincere. Sì, arrivare in finale e vincere, perché quella foto mi ha ricordato le emozioni di quel giorno, quel 9 luglio 2006 in cui, per una volta, siamo stati tutti italiani e fratelli per una cosa semplice e pura come una vittoria a pallone. Quella foto mi ha ricordato che “niente si ripete” ma che non si deve mai smettere di sperare che accada, nemmeno all’ultimo minuto.

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