La miopia delle città del movimento moderno e dei suoi maestri
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La miopia delle città del movimento moderno è un post che scrissi ai tempi dell’università per la prima volta mi “scontrai” approfonditamente con le teorie della pianificazione urbana del movimento moderno e dei suoi esponenti.
Questo post può quindi considerarsi una riflessione di uno studente di architettura non troppo affine a queste teorie che, cercando di trovare un suo percorso, le critica aspramente e arrogantemente come solo i giovani sognatori sanno fare. Orgoglioso di averlo scritto, seppure oggi sarei più pacato nell’esprimere la mia contrarietà, non posso che essere di nuovo d’accordo. Pur rispettando e ammirando totalmente tutti gli incredibili maestri che hanno fatto la storia dell’architettura dell’ultimo secolo.
I contenuti della Carta di Atene del 1933 furono da subito molto chiari. Il testo chiaro e semplice fu una sorta di manifesto capace di diffondersi capillarmente nell’ambito della progettazione urbana internazionale.
I maestri dell’architettura moderna, guidati dall’indiscusso protagonista Le Corbusier, individuarono le funzioni minime e primarie dalle quali – e per le quali – una città doveva essere concepita.

Essi arrivarono a tali conclusioni analizzando l’esistente. Cioè il passato. Il processo che li portò a formulare le teorie della zonizzazione, della meccanizzazione della città e i dei successivi progetti fu quello di riferirsi alla storia; ovvero osservare e constatare che la città contemporanea (di inizio novecento) presentava dei problemi.
Da questa analisi dei fatti sancirono delle leggi per indicare un unico rimedio, per molti versi definitivo e poco flessibile, che sarebbe anche potuto andare bene per il resto dei giorni della vita dell’uomo sulla terra.
Questo è stato il più grande errore. Pensare che la città, e soprattutto i cittadini, fossero statici, che non vi fosse la possibilità di alcuna evoluzione nelle dinamiche della vita dell’uomo.

L’idea di Le Corbusier, nel suo progetto “Le Ville Radieuse” del 1935 rappresenta chiaramente una città concepita come una catena di montaggio, essa non si preoccupa delle relazioni che verranno al suo interno, ne tantomeno le incentiva. Quello che appare è un agglomerato urbano ben distinto in ogni sua parte. Con questo progetto, l’architetto che maggiormente ha influenzato le correnti del 900 architettonico, sembrava volesse proporre l’ultima e definitiva idea di città, tanto che avrebbe raso al suolo gran parte del centro storico di Parigi per rimpiazzarlo con i più ordinati quartieri dell’abitazione, del lavoro e del tempo libero.

Mai come negli ultimi anni possiamo constatare come questa visione fosse sbagliata e poco lungimirante, la cosiddetta “città moderna” ha infatti fallito il suo compito ed è stata ampiamente messa da parte già a partire dagli anni 70. Il progetto fallimentare di public housing dell’architetto Yamasaki a Pruitt–Igoe, St. Louis nel Missouri (1954) ne è una prova lampante. Ispirato a questi insegnamenti e demolito per successo/felicità degli abitanti non pervenuti.

Oggi le città sono in evoluzione, con lo scoppio della new economy e con l’arrivo di internet molte cose sono cambiate, i cittadini non sono più gli stessi di mezzo secolo fa, il concetto di rete e comunicazione pervade il mondo socio-economico.
Un pianificatore ha l’obbligo di guardare al futuro e favorire lo sviluppo in più direzioni della città e delle sue utenze, senza porre dei paletti o assegnare ruoli in una catena di montaggio di un macchinario mai messo in moto.

Foto copyright: Wikimedia Commons, Le Corbusier