L’impatto ambientale dei fiori, dal Kenya a SlowFlowers
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Da quando ci ho trovato la Super Bock – la birra portoghese bevuta con entusiasmo durante il mio Erasmus nel lontano 14 – un noto discount della mia città è diventato uno di quei negozi che frequento saltuariamente, e dove, oltre alla birra compro con soddisfazione prodotti dalla grande resa e dal prezzo contenuto. Come gli hamburger vegani, i grissini che sembrano brezel e coloratissimi mazzetti di tulipani a 2.99 Euro.
Non sono mai stata una fan dei fiori recisi, ma, a quel prezzo, vuoi non comprarlo un bel mazzolino di tulipani colorati?
A furia di vederli appassire nei più disparati angoli di casa – ho cominciato a pormi domande sulla loro provenienza e sul loro effettivo impatto ambientale.
La provenienza dei fiori recisi
Prima di tutto, bisogna sfatare il mito che i fiori recisi che vengono venduti in Europa provengano dai Paesi Bassi, poiché la maggior parte delle coltivazioni di fiori si trova in paesi lontani, in Kenya soprattutto – dove vengono “prodotti” ogni anno circa 6.5 miliardi di fiori (!!!) – ma anche in Ecuador, Colombia, Etiopia e Tanzania.
Per quanto riguarda le rose poi, i numeri sono ancora più significati e circa il 90% viene importato dal Kenya. I fiori fanno così un lungo viaggio in aereo – conservati in celle frigorifere per giorni e trattati con agenti chimici per bloccarne lo sviluppo – fino ad Asslmer in Olanda, il più grande centro di smistamento di fiori europeo, dove ogni mattina avvengono le aste dei fiori che arrivano da ogni parte del mondo.
L’impatto ambientale dei fiori recisi
Nonostante il viaggio in aereo, secondo il saggio del 2010 di “How Bad Are Bananas?: The carbon footprint of everything” che sto leggendo in questo momento (in realtà ho la sua versione italiana, La tua impronta, edizioni di Terre di Mezzo), l’impatto di una rosa coltivata in Kenya è di 350 grammi di CO2 mentre di oltre due chili per una rosa cresciuta in serra nei Paesi Bassi.
Il ridotto impatto delle rose africane rispetto a quelle olandesi è stato poi confermato anche da uno studio del 2016 pubblicato dal Food Climate Research Network (pagina 19 del report) secondo cui le rose importate in UK dal Kenya producono meno emissioni di gas serra poichè richiedono molta meno energia rispetto a quelle prodotte in Olanda.
Questa differenza di impatto è principalmente dovuta alla differenza di clima che permette alle serre kenyote, localizzate principalmente nei dintorni del lago Naivasha, di essere alimentate senza eccessivo utilizzo di elettricità e gas naturali.
Alla luce di queste informazioni, è quindi giusto prediligere le rose importate a quelle coltivate in serra in Europa, quindi? Chiaramente la risposta non è così scontata.
La criticità degli studi che misurano l’impatto ambientale di un determinato prodotto è legata principalmente ai parametri che prendono in considerazione. Per esempio, lo studio di How bad are bananas considera l’impronta ambientale del carbonio (carbon footprint) e quella dell’acqua (water footprint).
A questi parametri bisognerebbe sommare altri indicatori che hanno sia un impatto diretto che indiretto. E nel caso dei fiori africani sono molteplici: dalla manodopera a basso costo alle pesanti conseguenze che le colture intensive hanno sulla popolazione locale.
La situazione del lago di Naivasha, a 150 km a nord di Nairobi, ne è infatti un esempio. Per poter crescere ogni rosa ha bisogno di circa 8 litri di acqua e a causa dell’elevato prelievo idrico si stima che negli ultimi dieci il lago abbia subito un abbassamento del suo livello di circa 3 metri. Si stima che ogni anno vengano consumati oltre 40 miliardi di litri di acqua per la coltivazione dei fiori in Kenya, un enorme controsenso considerando la scarsità di acqua dei territori africani.
I livelli di inquinamento dovuti all’utilizzo di pesticidi sono esponenzialmente aumentati e di conseguenza la fauna locale è drasticamente diminuita. Il lago oltre a essere popolato da pesci e altri animali acquatici è anche fonte di abbeveraggio per altre specie, come gli elefanti e gli ippopotami. Senza contare le malattie respiratorie e alla pelle di cui soffrono i lavoratori delle colture, generate dalla sovraesposizione a pesticidi di ogni tipo.
L’acqua del lago Naivasha viene usata principalmente per le colture intensive destinate al mercato occidentale, ostacolando così le colture tradizionali per la sussistenza locale.
L’accesso al lago è stato monopolizzato dalle imprese floricoltrici, impedendo ai pescatori locali di accedere alle sue sponde e togliendo loro il principale mezzo di sussistenza.
Nonostante le colture intensive diano lavoro a circa centomila persone, dimostrando il potenziale valore di questo business per il Kenya, la manodopera a bassissimo costo delle colture intensive è spesso sfruttata a beneficio di poche multinazionali supportate dai paesi occidentali.
Quali sono le possibili soluzioni?
Scegliere con consapevolezza. Quando entriamo in un supermercato per acquistare la birra in offerta che ti ricorda i bei tempi andati, evitiamo altri prodotti che potrebbero invece avere un impatto elevato, come i coloratissimi mazzi di fiori recisi a 2.99 Euro.
Alcuni fiori più di altri, inquinano di più. Le rose hanno bisogno di molta acqua per poter essere coltivate e oltre il 90% di quelle che troviamo in commercio provengono da Kenya e altri paesi in via di sviluppo. Altri fiori, come i ranuncoli invece, sono facilmente coltivati in Italia – in Liguria soprattutto – sono molto resistenti e non hanno bisogno di particolari accorgimenti per poter crescere.
Raccogliere i fiori e le erbe selvatiche direttamente dal proprio giardino, l’impatto è praticamente zero e la soddisfazione di avere il proprio mazzo in casa, elevatissima.
Per chi non ha il giardino e la stagione non lo permette, preferire i fiori recisi di organizzazioni certificate come SlowFlowers, movimento che promuove una filiera corta che rispetta i ritmi stagionali della natura, senza l’utilizzo di diserbanti e sostanze chimiche.
Foto Copyright: Marta Casartelli – unsplash.com