Fefhu e l’eredità di Max Ernst
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La copertina dell’album “Canzoni per Metà” del cantautore indipendente Dente è bellissima. È un surrealissimo collage di una creatura dalla testa di pesce e le gambe di uomo, che nuota su una texture a onde che ricorda il mare.
È opera dell’artista argentino di nome Fefhu, collagista che ha indubbiamente rievocato l’eredità dei grandi maestri surrealisti di inizio secolo scorso.
Il collage, il surrealismo e il senso di tangibile disagio che scaturisce dai suoi lavori sono le componenti più evidenti delle sue opere.
A Fefhu piace infatti giocare con le parti del corpo che fra di loro non hanno nulla a che fare, assemblarle e renderle esseri ibridi, completamente inventati. Ma ci sono anche fiori e animali, forme geometriche e costellazioni. Fefhu mette insieme elementi della natura e artifici con una naturalezza anomala, ma riconducibile a una tradizione artistica ben precisa: quella del collage in primis, e poi, più in particolare, quella delle opere surrealiste di Max Ernst.

Il collage nasce con Picasso e i suoi papiers collés, nel 1912, per evolversi velocemente in opere polimateriche. Insomma, non solo più papiers, ma anche “objets collés”. La tecnica ebbe una diffusione e uno sviluppo tale da influenzare altre correnti artistiche, certo con intenti diversi. Si trasformò in assemblage (veri e propri assemblamenti di oggetti) per i Neo-dada, arma satirica per John Heartfield.A me, però, Fefhu ricorda nitidamente i fotomontaggi surrealisti di Max Ernst (certo, anche loro diretta evoluzione del collage). Se le opere del maestro del Novecento erano combinazioni di elementi trovati in riviste storiche e specialistiche, che davano vita a scene implausibili, ma verosimili all’occhio, quelle di Fefhu invece celano la totale l’improbabilità.
Rivela senza paura il trucco del collage: le sue figure sono totalmente inventate e applicate su uno sfondo neutro che le priva di contesto. È come se il mondo che mette in scena fosse frutto della casualità e dell’errore, ma perfettamente coerente con il ridotto spazio che questo occupa. Sono dei piccoli quadretti, con un senso che si esaurisce in loro stessi, ma che ci offre la possibilità di evadere dalla realtà. O almeno entro i limiti della superficie che questi occupano.



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