La fine delle Utopie architettoniche

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Fine delle Utopie Architettoniche

Un recente articolo apparso su Architectural Review racconta con toni a tratti nostalgici, la fine delle utopie architettoniche e urbanistiche che hanno contraddistinto il secolo scorso fino agli anni 70.

L’architettura e gli architetti hanno sempre sognato di costruire un mondo migliore. Essi accompagnano ad una massiccia dose di sana presunzione, un’immensa carica creativa e visionaria. Nelle teorie e progetti del secolo scorso spesso si parlava di nuovi modi e nuove concezioni di vivere la città. Pensiamo ai situazionisti, a Constant, ad Archigram per fare qualche esempio.

“utopia Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale”

– Definizione su Treccani

Si parla di progetti che s’immaginavo un futuro diverso dal loro presente, non semplicemente un evoluzione di esso. Progetti che avevano più a che fare con il sociale e il politico-culturale che con l’efficienza e la sostenibilità. Progetti inverosimili, ambiziosissimi e surreali.

Qui di seguito alcuni esempi come la New Babylon di Constant, o le megastrutture di Archigrams come la Walking City, o la Naked city di Guy Debord. Tutti progetti incredibilmente affascinanti.

New Babylon Constant

Naked CIty
Walking City Archigram

Perchè oggi sembrano non esserci più visionari di questo genere?

Molto probabilmente perchè negli anni sono venuti a mancare una serie di fattori che hanno riportato architetti e urbanisti con i piedi per terra. Possiamo pensare alla ricostruzione post-bellica ormai superata, o alla presa di coscienza che viviamo in un mondo con delle risorse finite, non infinite – e quindi ad un bisogno sempre crescente di pensare in modo sostenibile e a basso impatto ambientale.

Possono essere tutte ragioni valide, però resta il fatto che la globalizzazione ha aperto gli occhi di tutti su tutto il mondo, e la terra è piena di nuove città da costruire o risistemare (pensiamo alla Cina). Eppure non si parla comunque di teorie così ambiziose. Gli studenti ne stanno più che altro alla larga e ci si concede più che altro al concettuale e all’astratto se proprio si deve immaginare a nuove concezioni di città e di vita. Non esiste più la stessa carica che animava un architetto come Constant per esempio, il quale ha dedicato oltre 7 anni della sua vita a sviluppare l’idea della sua New Babylon.

Probabilmente le ragioni sono da ricercare nel fallimento di queste teorie o comunque nell’allontanamento dell’interesse collettivo, oggi più concentrato sul concreto. Su tutti pensiamo ai metabolisti, (qui sotto nell’esposizione universale di Osaka negli anni ’80, momento del “lancio” del movimento e in un collage dei loro progetti) – un gruppo di architetti giapponesi che era riuscito a muovere la camera di commercio del Giappone dalla loro parte, così da farsi sostenere anche economicamente nelle loro visioni di città meteboliste.  Ciononostante, neanche loro riuscirono a realizzare le loro utopie.

“Architecture should stop trying to change the world and accept its own limits” – Douglas Murphy on The Architectural review

La fine delle Utopie architettoniche non significa che oggi non ci sono architetti, designer o urbanisti che (cercano) di immaginarsi un futuro migliore o diverso per noi.

Il fatto è che sono cambiati i modi, le ragioni e i risultati. Oggi per esempio è possibile ammirare i lavori di Vincent Callebaut – come le sue città giardino galleggianti, le sue torri sostenibili o la sua visione di Parigi nel 20150. Progetti caratterizzati da temi ambientali e sostenibili, ma di certo non dello stesso “spessore” dei visionari della seconda metà del secolo scorso.

Personalmente rimango dell’idea che oggi i migliori esempi derivano dal mondo del cinema, anche se molto spesso ci sembra di vedere la stessa identica città in ogni film di fantascienza.

Articolo ispirato da Architectural Review

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Articolo di Luca Onniboni

Luca Onniboni

Autore e fondatore di Objects., Archiobjects e Marketing For Architects. Esperto in comunicazione e appassionato di Architettura, Design e Marketing. E' anche un consulente, un nuotatore, un motociclista e un instancabile ricercatore

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